Terza Edizione del Concorso Letterario Nazionale di Monselice “Monselice per le Pari Opportunità – Davanti allo specchio: immagine di lei

La giovane, all’interno della tenda, si guardò nel rettangolo di specchio che teneva tra le mani.
Dapprima lo allontanò per vedere la sua intera figura, le vesti lunghe color porpora celavano un corpo longilineo dalle gambe lunghe.
Poi avvicinò lo specchio al volto, guardò i capelli scurissimi, lunghi e crespi e vi scorse un filo bianco, le provocò un cruccio che si trasformò subito dopo in un sorriso di perla bianchissima che allargò il suo ovale di ebano luminoso.
Anche papà aveva sbiancato i suoi capelli ancora giovane. Non era poi un grande problema, tanto li avrebbe dovuti coprire.
Vedere i suoi capelli liberi, una nuvola scura e ribelle intorno al viso, le dava soddisfazione.
Guardò la bocca carnosa che si apriva sulla fila di denti un po’ sporgenti, gli zigomi alti e per ultimo osservò gli occhi.
Le sopracciglia folte incorniciavano gli occhi che brillavano come onice prezioso nella loro forma allungata e appena obliqua.
Quello sguardo le restituiva la fierezza del suo popolo, la dignità tramandata dai genitori, una nobiltà morale che le apparteneva da generazioni. Vi leggeva la consapevolezza del suo essere una giovane donna istruita in un Paese che voleva le donne senza istruzione alcuna, le voleva sottomesse e, ancora bambine, le obbligava al matrimonio con uomini molto più grandi.
In quegli occhi, tuttavia, leggeva un velo di paura e involontariamente le scese una lacrima che asciugò sul dorso della mano.
Aveva lasciato dietro di sé scoppi, bombardamenti e soprattutto aveva lasciato i genitori e la sorella maggiore. Loro lavoravano in uno degli ospedali di Khartoum, il padre era chirurgo, la madre e la sorella ostetriche. Le dissero che il loro lavoro li avrebbe protetti, curare le persone, di qualsiasi appartenenza, di qualsiasi fazione era la loro assicurazione. Lei, invece, doveva mettersi in salvo, lontana da quella situazione in cui le donne erano gli elementi più fragili, vittime spesso di violenza. Doveva essere forte.
Padre e madre da sempre tradizionalisti e da sempre moderni, non vi trovava contraddizione in questo. Erano pronti a insegnare a lei e alla sorella, i fondamenti del Corano e altrettanto pronti a decantare che il rispetto della donna è al centro del messaggio.
Nada pensava che quello che i suoi genitori le insegnavano e perseguivano denotasse il volto illuminato del Sudan.
Era il sogno d’istruzione per le donne sudanesi per l’emancipazione, per togliere la zavorra di anni di proibizionismo, di censura, di violenza. Per far sì che non fossero più le guerriere non visibili, quelle da colpire duramente.
Nada, aveva ventidue anni e fino a qualche settimana prima frequentava la Facoltà della Salute della Donna, all’università cittadina. Portava a maturazione anni di educazione familiare, l’istruzione che avrebbe segnato il cambiamento
Ora era lì, una delle tante, in attesa.
L’accampamento distava dagli scontri, si trovava ai confini Nordoccidentali, ma nulla era certo in quella guerra intestina durata anni, cessata e poi ripresa qualche mese prima.
Fratelli che si combattevano con ferocia.
Una Terra che, sebbene ricca, era martoriata o forse proprio per questa sua ricchezza non trovava pace duratura. Un Paese che non riusciva a essere generoso con i propri figli.
Lei divideva la tenda con altre ragazze e donne e con loro tanti bambini, tutti in fuga, tutti con la speranza di un domani migliore. Attendevano fiduciosi di essere prelevati da qualche organizzazione umanitaria e portati oltre i confini, in salvo.
Era riuscita ad appendere qualche telo intorno al suo giaciglio, per creare un po’ di intimità in quell’ambiente condiviso, rimise lo specchio nella tasca dell’abito e indossò l’hijab.
Si guardò intorno, leggeva negli occhi delle donne una fondata paura, una disillusione sul loro futuro e sul futuro dei bambini e bambine.
Nada sperava di poter entrare in Egitto, lì i suoi genitori conoscevano un paio di famiglie che avrebbero potuto aiutarla a terminare gli studi. La ragazza non aveva più certezze, il suo cuore era ferito, era preoccupata per i suoi cari.
Finalmente arrivò il giorno in cui qualcuno venne per occuparsi di loro.
Lavinia arrivò con il suo gruppo di aiuti umanitari, provenivano un po’ da tutta Europa, lei era italiana. Senza perdere tempo cominciarono a darsi da fare, si divisero in gruppi, ognuno di questi si sarebbe occupato di una ventina di persone, l’accampamento ne contava all’incirca un centinaio.
Per Lavinia quella era la prima azione su campo e si rese conto fin da subito che le lezioni ricevute su come fronteggiare situazioni di crisi nemmeno si avvicinavano alla realtà.
Cercò dentro di sé tutto il sangue freddo di cui disponeva per far fronte a quello che vedeva, malnutrizione, soprattutto infantile, ferite, talvolta profonde e tante paia d’occhi tristi.
I nuovi arrivati si occuparono subito dei bambini, quelli che non stavano bene vennero visitati, medicati, somministrarono medicine lavorando alacremente, tanto che le occupanti della tendopoli, dapprima schive, cominciarono ad affidarsi a cure e consigli.
Nada e un paio di altre giovani parlavano un inglese fluente ed erano di grande aiuto anche nel tradurre le forme dialettali dei vari clan.
Nada affiancò Lavinia e già dalla prima sera le due giovani condivisero qualche informazione, l’Italiana le disse di avere trent’anni e non negò un certo timore dato dall’inesperienza.
La tendopoli pian piano divenne un po’ più vivibile, anche se Lavinia guardando quei bambini provava una fitta al cuore, avevano un’espressione negli occhi che li rendeva più grandi della loro età.
Poi c’era la paura che vedeva riflessa nel suo sguardo allo specchio del bagno da campo, allestito accanto alla tenda. Si coricava stremata e si lasciava cullare dal sonno che talvolta tardava a venire.
Le due giovani finivano il proprio lavoro, sedevano in prossimità delle tende e parlavano, Nada raccontava di un governo che non proteggeva la popolazione, le donne; di infibulazione e violenze, “Solo il fatto di essere donna è un pericolo”
Le confidava il terrore di non rivedere i suoi cari.
Giornalmente, dopo aver somministrato cure e razioni di cibo, si dedicavano alla raccolta dei dati che registravano meticolosamente. Era importante tracciare la provenienza di ognuno di loro, eventuali malattie e associare il nome della madre a quello del figlio.
Nada e Lavinia avevano stretto un’amicizia che andava oltre gli interscambi umanitari, non potevano essere più diverse, una alta, longilinea e scura, l’altra più bassina, atletica con i capelli lunghi, lisci di un castano dorato e la pelle di porcellana.
Nada confidò di quanto sperava essere destinata in Egitto. Lavinia le raccontava dell’Italia, di problemi sì, ma che in confronto a quella realtà erano davvero di poco conto.
Arrivarono, in un giorno caldo e umido, coloro che avevano il compito di dislocare donne e bambini al di là del confine. L’Italiana lesse negli occhi della nuova amica il panico quando capì di non poter essere accolta in Egitto.
L’indomani un paio di gruppi partirono per le loro destinazioni e Lavinia prese una decisione, maturata durante le ore insonni della notte appena trascorsa, disse a Nada “Verrai a casa mia in Italia, come ospite e poi decideremo quello che è meglio per te, vedrai la mia famiglia è molto accogliente”.
Nada la guardò con occhi di profonda gratitudine e sussurrò “Shukran, Grazie “
Partirono, appena pronte, l’aereo dopo le lunghe ore di volo atterrò a Ragusa e da lì raggiunsero casa.
Il modo in cui la famiglia di Lavinia la accolse la commosse nel profondo e, appena poté, Nada si mise in contatto con la madre. Si rasserenò nel sentire che stavano tutti bene.
Le raccontò che si trovava in Italia, ospite della famiglia di una nuova amica, le descrisse la calorosa accoglienza ricevuta e alla fine si salutarono entrambe confidenti di risentirsi presto.
Qualche mattino dopo, Lavinia sorseggiava il suo caffè davanti alla finestra che affacciava sul mare.
Scorse Nada, seduta su uno scoglio, i capelli crespi che fluttuavano nella brezza mattutina, fiera e regale come una principessa nubiana.
Assorta, guardava in direzione Sud-Est, verso il suo Paese, poi allungò le braccia e lasciò i fiori d’ibisco scarlatto che teneva fra le mani, donandoli al mare.
Nada affidò i fiori al mare, come si affida una preghiera, una promessa che deve arrivare lontano.
Poi prese lo specchio dalla tasca e si specchiò a lungo.
Le piaceva la determinazione che leggeva nei suoi stessi occhi.
Quando, attraverso lo specchio, guardava dentro ai propri occhi era sempre sé stessa, ritrovava la sua vita dalla primissima infanzia al presente, affacciavano direttamente sulle stanze della sua anima.
Scrutando i suoi occhi nel profondo vedeva quello che voleva essere, quello che voleva diventare. Promise a quelle pietre d’onice che riflettevano la sua essenza “Voglio rendere fieri i miei genitori. Voglio essere una piccola goccia preziosa nell’enorme sorgente dell’Oasi del Cambiamento”.

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