Terza Edizione del Concorso Letterario Nazionale di Monselice “Monselice per le Pari Opportunità – Davanti allo specchio: immagine di lei

In questa fredda notte di giugno, un raggio di luna, lama argentea che fende questo nero abisso, raggiunge i miei occhi pieni di acqua.
Il mio corpo, ormai, è gonfio.
Vorrei che quei piccoli morsi sulla mia pelle fossero di Berzan e non dei pesciolini colorati che mi vorticano intorno.
Dieci metri di acqua schiacciano questo involucro di donna ormai inutile.
L’acqua nei miei occhi si mescola con le lacrime non versate, con le gocce di pioggia mai sentite sulla pelle, con i sussurri di Berzan che non respirerò più.
Sento freddo, tanto.
Le tenebre che mi circondano offuscano e cancellano anche i miei ricordi. No. Quelli non li ho lasciati andare. É stato solo un attimo di disperazione, ma sono ancora con me, nel mio cuore fermo, nella mia mente incartapecorita, nei miei occhi vacui e fissi. Sono l’ultimo raggio di una esistenza ormai persa nella oscurità di questo sepolcro liquido, pieno di vita e di colori a me estranei.


I filamenti gialli degli anemoni che mi fanno da corona in questa opprimente fossa si muovono al ritmo delle maree e del flusso delle onde. Mi rammentano le lunghe chiacchierate serali con Berzan, i miei fianchi e i miei seni sollecitati dalle sue affusolate e forti mani, le nostre ormai smarrite pulsioni, i suoi sospiri accordati con la mia passione.
Gli occhi delle ombrine seguono attente il movimento ondivago degli stracci che ancora coprono alcune parti del mio corpo, quasi a voler testardamente ribadire l’origine umana di quei pezzi gonfi e scuri di carne macerata e sfibrata.
L’unica felicità potrà essere quella che darò agli abitanti di queste profondità con i rimasugli di quello che fu il mio corpo, tanta carne ormai inutile alla mia antica speranza, ma apprezzata da chi è alla continua ricerca della prosecuzione della specie.

Sembrava l’unica possibilità di regalarci una speranza: lasciare la nostra stretta valle protetta dagli aguzzi denti dei monti Zagros, la nostra gente povera ma felice di essere ancora viva dopo le incursioni dei demoni del Daesh e, poi, dei nemici di sempre, i turchi. Andare via, con la tristezza nel cuore, ma con il desiderio di vivere una esistenza tranquilla, serena, senza la paura del fendente che ti chiude gli occhi e stronca i desideri.

Dai, tira più forte, pesciolino; quel brandello del mio seno senza battiti è tuo, te lo sei meritato, strappalo. A me non fa male più, non ti preoccupare.

Ci avviliva il nostro sorriso ormai triste, rassegnato, la nostra paura evidente a ogni rumore più forte, il nostro stringerci forte forte quasi a cercare un reciproco riparo che non avrebbe mai potuto essere sicuro. Volevamo costruire la nostra famiglia, ma come riuscirci nella precarietà di una vita che poteva essere interrotta da tanti nemici senza pietà e senza remore?


Il granturco del fertile campo, la lana e il latte delle nostre capre, la fresca sorgente del villaggio ci avrebbero permesso una esistenza povera ma serena nella valle dei nostri avi alle pendici del monte Qandil nella quieta attesa del tramonto circondati da tanti figli e molti nipoti.
Ma gli attacchi dei neri demoni barbuti, le incursioni di quelli che rivendicavano la loro modernità, anche se solo dei loro strumenti di morte non della loro civiltà, non avrebbero permesso nulla di quanto sperato, solo mera sopravvivenza e fuga in alto, sempre più in alto, abbarbicati come capre alle rocce dei monti.


E allora non resta che scegliere la fuga, la diaspora che fai diventare speranza, speranza di una vita che valga la pena di essere vissuta con i problemi normali della quotidianità e non lotta continua per sopravvivere, per salvare la famiglia dalla violenza, dal sangue, dal lutto.
Berzan, mio dolce Berzan, abbiamo lasciato il nostro cuore sugli aspri monti Zagros perché dovevamo andare avanti, in Europa, nella terra della pace, della democrazia, dell’accoglienza, delle possibilità, e trovare quella serenità che non avevamo nella nostra casa. Quella era la nostra attesa, il nostro sogno.
E vai, vendi le capre, il terreno fertile, la casa. Quelli che credevi amici sono adesso solo approfittatori. I pochi soldi ricavati basteranno solo per la traversata del grande mare, ma il viaggio fino alle sue sponde sarà a piedi. Vai, cammina, Berzan, spaccati la schiena per servire il ricco mercante che ti concede l’accesso alla sua casa per racimolare qualche soldo.

Elemosina che pretende oltre al lavoro anche la tua impassibilità quando il ruvido lascivo tocco di quelle mani profumate da oli preziosi, ma puzzolenti del suo lerciume morale, si avventurano sul mio corpo. E quando le mani cercano oltre, lo schifo è troppo e non ce la fai a sopportare, corri da me e anche se ormai sfiancato dal carico di legna, dalle pietre che ingrandiscono quella casa, dagli orari che non si accorciano, ma ogni giorno di più si dilatano e prendono tutte le tue forze, tanto da lasciare neppure un respiro da dedicare alla tua Hana, via, corri via da quella casa, da questo altro demone camuffato da pietoso amico. E così sempre, settimana dopo settimana e mese dopo mese, fino ad arrivare sulle sponde del grande mare, stremati, logorati, con gli occhi che quasi avevano vergogna di incontrarsi e tornare ad abbracciarsi.
Il libico con la bocca storta, gli occhi freddi, insensibili a quei corpi macellati da mesi di indifferenze altrui, ci disse, prima di salire e dopo aver ricevuto il dolente costo del passaggio su quella carretta verde e azzurra smorta, senza gioia, che saremo stati stretti, ma che il viaggio era corto, una notte e un giorno e, poi, la terra promessa, quella isola calda ancora Africa, ma già ricca Europa, con gente sorridente e solidale, con un lavoro sicuro per tutti e con tanti ragazzi come noi, felici e pronti ad amarci. Ricordavamo i soldati italiani sulla nostra terra disgraziata, sempre gentili, pronti a difendere noi e la grande diga sul Tigri. Così è quel popolo, ci dicevano.
Due notti dopo, una grande luna rossa – perché rossa come il sangue? Perché non era bianca come le altre notti? – accolse e rischiarò l’inizio del nostro viaggio su quella barca dove giovani con gli occhi bassi, donne con il pensiero ai vecchi abbandonati, bambini con la paura nello sguardo, insieme silenziosamente pregavano i propri dei misericordiosi.

No, pesciolino azzurro, lascia quel brandello di pelle sulla mia bocca orribile, lì Berzan posò le sue calde e profumate labbra l’ultima volta su quella barca verde e azzurra scolorita dal dolore di tanti e dall’ingordigia di pochi. No lascia almeno il ricordo.

Il mare era calmo. Noi ci stringevamo, cercavamo un angolo di intimità su quella barca colma di dolore e di speranza. I piedi erano bagnati. Il motore gorgogliava, sembrava tossire, irrequieto, discontinuo, le sue pause più lunghe ci tuffavano il cuore verso la paura, la paura di rimanere lì, fermi, in quell’inchiostro rischiarato dal sangue di quella strana luna.
Una luce. Un fascio di luce solca il mare intorno a noi, cerca questo traballante contenitore della speranza. Berzan, siamo salvi, gli gridavo, e con me tutti gli altri; Berzan, ci raccolgono, ci portano sulla terra ferma, in Europa, gli gridavo stringendomi a lui. I suoi occhi erano persi in quel groviglio di gioia, di urla, di canti, di ringraziamenti.
Berzan, ecco sono vicini; ma che fa; ma perché accelera quella grande nave, grigia con quella enorme bandiera rischiarata dai fasci luminosi della luna rossa? Ma cosa fa? No, alza onde con malvagie creste bianche, enormi, violente, NOOOO.
L’acqua è gelida, è scura, la luna si copre i raggi con nuvole nere, è la sua vergogna. Berzan, dove sei? Nuota, qui, verso di me. Oddio, non lo vedo più, la nave se ne va, enormi indifferenti onde mosse dai suoi motori ci travolgono, ci scagliano giù nell’abisso nero liquido. Berzan, Berzan, Berz…

Hana, amore mio dove sei? Mi avevi giurato di non lasciarmi mai solo, meglio morire insieme, dicevi, che sopravvivere all’altro. Hana vieni da me, sono giorni che ti aspetto. Hana, vita mia …
No pesciolino, lascia quel brandello del mio petto; non lo staccare; Hana appoggiava il suo volto sul mio petto; allontanati; lasciami il ricordo della nostra felicità. Addio Monti Zagros. Addio Hana. Addio anche a te pesciolino dorato .

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