Con il racconto "Lettera dal mare" Francesco Mosconi vince il Terzo Posto della quinta edizione del Concorso Letterario Nazionale di Monselice
Tu che e se mi leggerai sappi che:
Non so leggere, non so scrivere e non so neppure far di conto, ma so fare un sacco di altre cose; so cucire i palloni che vengono usati per giocare a calcio, so resistere alla fame e alla sete, so correre veloce come una gazzella, so arrampicarmi sugli alberi, so come evitare le bombe, i militari con fucili e mitra, i carri armati, i fanatici estremisti e so mettermi il burka molto bene… so anche piangere in silenzio e trattenere le lacrime pure quando sono tante.
Ho anche una bella voce, dicono, ma non posso cantare e allora canto in silenzio. .. so ascoltarlo il silenzio, so anche parlare con lui che mi consiglia, mi ascolta e mi consola. Sì, anche il vento mi consola, a volte, nei momenti, pochi, liberi in cui posso correre alla volta del deserto e fermarmi a guardare l’immensa distesa di sabbia, infinita, tutta uguale… mi fa dimenticare di essere in una guerra, mi fa dimenticare di non essere nessuno e mi ricorda la perduta felicità avuta per pochi istanti nella mia vita.
La sabbia è così bella. Poi il tramonto nel deserto è uno spettacolo incomparabile, davvero. I granelli si colorano di rosa e di un arancione vivo e forte, mi viene sempre da sorridere, poi piango un po’. E non so giocare. non lo so fare perché non l’ho mai fatto, ho undici anni quasi dodici e non so giocare. In compenso so fare sesso, so lavorare molto velocemente e so come fare per non essere bastonata.
E non so nuotare anche se questo mi sarebbe servito. Mi sarebbe servito e ci penso proprio ora sotto queste onde che mi avvolgono e l’acqua salata che mi entra nel naso, nella bocca e nei polmoni, mi si espande dentro per tutto il corpo, la sento dentro di me, sopra, sotto, ovunque. Acqua che non si può bere.
E poi vedo del legno affondare, vedo i vestiti di donne, i burka che galleggiano e sembrano tante meduse, vedo dei corpi andare giù, giù in fondo alla distesa blu e scomparire in tutta questa massa salata che mi circonda. Anche io sto andando giù, prima le braccia le muovevo e cercavo tentavo di risalire, ma ora sono
stanca. Sono così stanca che ho solo voglia di lasciarmi andare giù in fondo.
Le meduse sono affascinanti, fanno male ma sono così belle. Le donne anche loro sono belle ma loro non fanno male, a loro si fa male. La mia mamma è bellissima, ha grandi occhi marroni e 1a pelle nerissima, ha i capelli ricci, molto più ricci dei miei che li ho solo mossi, il che è molto strano perché di solito le somale hanno i capelli come la mia mamma, ma lei li ha più belli di tutte le donne che conosco.
La mia mamma sa anche scrivere e ha una voce bellissima, molto più bella della mia. La sera quando mi cantava la ninna nanna era un momento dolcissimo. Cantava e mi narrava di terre lontane e in cui c’era la libertà, senza burka, senza Carri armati, senza militari in ogni angolo di strada, mi cantava di persone che sorridevano e di ‘bambini che giocavano nei prati e delle case intatte non bombardate, scuole, cielo azzurro senza aerei che sganciano bombe e musica, danze, colori.
Una volta nella mia terra era così, mi raccontava sempre, una volta, tanto tempo fa anche la mia terra era colorata, libera, senza guerre ed era una terra felice, come la terra lontana di cui mi parlava che mi diceva era come un paradiso.
Poi… poi tutto è scomparso, i fanatici, la guerra, le bombe. questa storia triste la sapevo anch’io anche se non avevo mai studiato. La mia mamma mi diceva che io avrei raggiunto quella terra lontana e avrei avuto da grande un’esistenza fantastica, amore, libertà… una vita.
La mia libertà è il mare, quindi. La mia esistenza fantastica è distesa sulla sabbia del mare con i pesci che mi nuotano sopra, in lontananza il sole che si riflette sullo specchio dell’acqua, è bello quaggiù. Credo che ci rimarrò per sempre.
Il mio volto non è da nessuna parte, solo un numero, 110, una di quelle centodieci anime sono io. Ma non ho un volto per nessuno. Il mio nome. Come il mio volto. In realtà invece ho un nome molto bello, mi chiamo Rachel, mi piace molto, Rachel, anche se però il padrone della fabbrica mi chiamava “venti”, ero la bimba numero 20.
I miei amori. non ho amori. Sono piccola per l’amore. Ho avuto un fidanzatino quando lavoravo nella fabbrica e cucire palloni da calcio giorno e notte per mesi interi, il fidanzatino era il mio vicino, non potevamo parlare fra di noi né guardarci, ma ci piacevamo tanto, Si chiamava Amir. Si chiamava Amir perché adesso è un soldato e si chiama solo soldato.
La mia casa è stata bombardata, la mia famiglia è stata uccisa e la mia vita è in fondo al mare.
Ma ora non Io penso più così fermamente, la mia esistenza che la mamma, Magda, diceva che sarebbe stata fantastica in realtà non lo è stato poi così tanto; ho lavorato in fabbrica per mesi, anni, sola, la mia mamma è morta ma io ne parlo come se fosse ancora qui perché è ancora qui; il mio papà è in guerra, i miei fratelli sono in guerra, mia sorella è morta ammazzata, ho venduto il mio corpo permettendo che fossi lordata nei miei anfratti di bimba per avere i soldi per pagare questo viaggio, per arrivare qui, in fondo al mare ad assaporare la libertà per la prima volta, libera… libera di piangere perché qui sotto, ora, sto piangendo dalla felicità.
Perché la sabbia è quasi bianca e i pesci hanno mille colori e perché i burka sembrano delle meduse, perché ho la forza di sognare, adesso. Perché qui non c’è nessun cecchino a minacciarmi con un fucile e nessun aereo da cui nascondersi, perché qui, in fondo al mare, non c’è la guerra, non ci sono armi e non c’è la tristezza. E piango perché finalmente ho visto la terra incantata di cui cantava la mia mamma, case, famiglie, amori, volti, nomi, vite, tutto qui, nella mia testa, tutto qui nei miei sogni che in fondo al mare sono così grandi, in fondo al mare, dove regna la pace.
Rachel, somala, anni 12 quasi 13
Le motivazioni della Giuria
La Giuria assegna il terzo premio al racconto di Francesco Mosconi, Lettera dal mare, per aver interpretato la tematica della pari opportunità con originalità e delicatezza in un’immaginaria testimonianza epistolare delle conseguenze delle guerre in terra d’Africa: la fuga di una bambina che non approderà alla salvezza, ma sarà vittima di un naufragio.
Il racconto si sviluppa attraverso la lettera che la piccola Rachel invierebbe alla madre nella quale, dimostrando di accettare il proprio destino, afferma di aver finalmente trovato proprio “in fondo al mare” la libertà e la pace tanto desiderate.
L’improbabilità della situazione comunicativa è così giustificata dalla capacità del racconto di penetrare, attraverso un agile e sereno flusso di coscienza, nelle emozioni, nei ricordi e nelle riflessioni della giovanissima protagonista.
Al lettore è così ricordata, proprio nel tono delicato e paradossalmente lieto della narrazione, la frequenza insopportabile dei naufragi che nel Mediterraneo sottraggono la speranza nel futuro soprattutto ai più giovani migranti.
