Terza Edizione del Concorso Letterario Nazionale di Monselice “Monselice per le Pari Opportunità – Davanti allo specchio: immagine di lei

Avevo scelta? Ho detto che ero caduta dalle scale. Mentire può diventare una seconda pelle, anche se mentire a Cristiana all’inizio mi procurava una fitta di stupore doloroso. Dopo un po’ ci ho fatto l’abitudine, come con tutti gli altri. Gli altri però sono generalmente disposti a credermi senza indagare, lei invece no. Questo ha reso le cose più complicate.

Cristiana è la mia amica del cuore, la sorella che non ho avuto, la compagna di notti insonni e litri di caffè bollente prima dell’interrogazione di greco antico, prima dell’esame di filologia, prima della tesi di laurea in lettere classiche all’Ateneo fiorentino, e poi prima di decidere: lo sposo, sì o no? Non posso dimenticare le nostre risate commosse di quella sera, la passeggiata sui Lungarni impreziositi dai palazzi rinascimentali, noi due affacciate al parapetto di Santa Trinita, a contemplare il movimento secolare dell’acqua sotto le arcate del ponte e a cercare risposte ai nostri dubbi esistenziali.

Luigi si stava diplomando ai corsi serali per adulti attivati alla Scuola Redi: era un gruppo misto, con gente di tutte le età. C’erano ragazzini stranieri che abitavano in comunità alloggio, muratori titolari di ditte edili alla ricerca di un diploma da geometra che gli avrebbe facilitato le pratiche, giovani extracomunitari, poche donne. Lui lavorava da quando era ragazzo nell’azienda di famiglia, suo padre era un contadino che era riuscito a ricomprare dal padrone colonica e terra, aveva rimesso la casa, un rudere, con immani sforzi e aveva continuato a fare quello che faceva prima, senza rendere conto a nessuno se non alla moglie: una donna arida e pratica, abituata a far quadrare i conti e rigare i familiari.

Tra i familiari da comandare a bacchetta avrebbe incluso automaticamente anche me, ma allora non lo sapevo. Quello che sapevo era che per suo figlio, oltre ad aver perduto completamente la testa, nutrivo una sconfinata ammirazione frutto, probabilmente, di un rimorso oscuro che mi attanagliava a causa delle mie deplorevoli origini borghesi: mio padre funzionario, mia madre insegnante, un confortevole appartamento di proprietà e un rassicurante conto in Banca che mi consentiva di poter fare affidamento su abbondanza di libri, cinema, teatro, vacanze al mare e qualche viaggio all’estero, un aperitivo con le amiche e la palestra.

Per di più studiavo con diligenza, facevo volontariato in parrocchia, non frequentavo giri equivoci e volevo bene alla mia famiglia: tutte cose scandalosamente mediocri e ipocrite, come mi lasciò intendere lui davanti ad una birra dopo che ci eravamo conosciuti alla fermata della tramvia. L’avevo guardato, perché era indubbiamente bello. Luigi è bruno, con occhi nocciola dal taglio allungato, non troppo alto ma proporzionato. Ha mani grandi e dita lunghe, da pianista. È quel che si dice, no? a chi ha dita affusolate, agili. Un paragone insulso, mi rendo conto. Le sue, credo non abbiano mai toccato uno strumento: avrebbe potuto farlo con facilità, ma significava studio, sacrificio, pazienza.

Un linguaggio che non gli è mai appartenuto. Anche lui mi aveva guardata, neppure io all’epoca ero poi tanto male: dopo un’adolescenza trascorsa a recriminare sui miei denti da castoro, le gambe troppo lunghe, i capelli troppo rossi, il seno troppo piccolo eccetera, mi ero riconciliata con lo specchio che finalmente mi restituiva l’immagine di una ragazza solare, snella, con una massa di riccioli fiammeggianti. Insomma, mi ha guardata e io mi sono sentita rimescolare come un zabaglione.

Avevo appena lasciato un fidanzato di medio conio, ero pronta ad incuriosirmi per qualcun altro, e la sorte fece sedere Luigi accanto a me, nello scompartimento. Rammento che dissi qualcosa, non molto in verità. Parlò lui, prima centellinando informazioni quasi con noncuranza, come a dire che non c’era granché da raccontare. Poi, con foga crescente, come se improvvisamente e per la prima volta avesse trovato in me la persona alla quale da sempre voleva rivelare la propria anima. Lo ascoltavo e mi innamoravo. Inesorabilmente. Arrivata alla fermata mentii, e dissi che in realtà dovevo proseguire.

Scesi dopo di lui, e dopo che ci eravamo scambiati il numero di telefono. Ci frequentammo da subito con accanimento e in capo a poche settimane avevamo già esaurito convenevoli e preliminari. Io, nel frattempo, avevo vinto il concorso e insegnavo italiano in una scuola media della provincia. Un paio di volte uscimmo in quattro: Cristiana aveva un fidanzato storico dai tempi del liceo. Un ragazzo pacato, con un po’ di pancia e l’aria mite. Quel pacioccone si era appena laureato in ingegneria ambientale, e di lì a poco avrebbe cominciato a lavorare ad un progetto europeo che li avrebbe portati, tutti e due, in Finlandia: lui come ricercatore e lei insegnante di italiano all’Università di Jyvaskyla.

Dopo la seconda serata, Cristiana mi telefonò. Non aveva peli sulla lingua e mi chiese, preoccupata: che hai da spartire con quello? è una persona talmente banale. Ci rimasi malissimo, anzi mi offesi mortalmente e dopo un quarto d’ora di discussione misi giù il telefono. Ne riparlammo dopo qualche giorno, Cristiana si era resa conto che avrei preferito rompere con lei piuttosto che mettere in discussione la storia d’amore più grande di tutti i tempi, e non era disposta ad abbandonarmi. Alle sue obiezioni, che viaggiavano su considerazioni del tipo: “non legge altro che non sia la lista della spesa… non ha passioni fuor che il calcio… ripete in continuazione quanto è in gamba sua madre… va a caccia di scorciatoie per far soldi, l’unico divertimento che concepisce è la discoteca…” ribattei alternando passione e persuasione, confutandole una ad una con non so più quali argomenti.

Ne ricordo solo uno, che ho continuato a ripetermi giorno dopo giorno, notte dopo notte, anno dopo anno: uno studente lavoratore, che tenacia, che volontà. Dentro di me, ora lo capisco meglio, agiva con potenza anche il senso di soggezione da rampolla di famiglia-bene nei confronti del giovane poveromaonesto, di umili origini e grandi (supponevo) ambizioni, che votava a sinistra in nome del popolo sovrano e disprezzava la colpevole ricchezza. Mi faceva sentire dalla parte sbagliata, inadeguata, e nel suo amarmi nonostante, vedevo il mio grande riscatto.

Una roba da anni Sessanta. Immagino che Cristiana avesse compreso perfettamente l’inutilità dei suoi sforzi. Lo sposo, sì o no? Era una domanda retorica, rivolta con un sorriso felice e sufficiente. Quella sera, sul Ponte Santa Trinita, mi abbracciò senza più parlare. Mi abbracciò in un modo che non lasciava spazio ad equivoci e che esprimeva una granitica certezza, quella della sua presenza nella mia vita senza se e senza ma, di un’amicizia senza cedimenti. Non è mai venuta meno a quella promessa. Io, invece, sì. Prima ho mentito a me stessa e poi a lei, sistematicamente, con metodo.

Alla mia sconcertata famiglia dissi che ci saremmo sposati entro l’estate, e così facemmo. Dissi anche che saremmo andati a vivere, almeno in un primo periodo, a casa dei genitori di mio marito, figlio unico e colonica spaziosa: non vedevo controindicazioni. Non vedevo moltissime cose. Ancora oggi mi chiedo come sia stato possibile, per una giovane donna del Ventunesimo secolo colta, intelligente, con un buon lavoro, arrivare a scelte che hanno il sapore del secolo scorso. Mi rispondo che esiste, forse, annidato nelle pieghe più segrete dell’anima femminile, e in talune donne e vicende più che in altre, un’incarnita propensione alla sudditanza che solo a prezzo di non so neppure io quante e quali battaglie potremo pensare di estirpare definitivamente. Ci siamo sposati di pomeriggio, era il 16 luglio.

La prima volta che mi tirò una sberla ero rimasta senza fiato: si era scusato in fretta, dicendo che le mie insistenze sulla ricerca di una casa solo nostra avevano mortificato sua madre, una donna generosa, che mi amava come una figlia e che non meritava questo dolore. Ingoiai saliva e lacrime, e pensai che aveva ragione. Ero ingrata a non rendermi conto di quanto i suoi avessero bisogno di noi, di come si prodigavano per non farci mancare nulla e di quale fortuna avevamo a non dover pagare né affitto né mutuo per una casa circondata da campi di olivi che tutte le amiche mi invidiavano.

Davvero? Le mie amiche si erano diradate una ad una. Immagino che la mia compagnia fosse diventata deprimente: passavo parecchio tempo a coprire i lividi con il fondotinta e abbondanti pennellate di fard, ma non riuscivo con altrettanta abilità a mascherare il dilagante senso di vuoto che saliva dallo stomaco ed io stessa presi ad evitarle il più possibile, temendo che prima o poi mi sarebbe colato dalla bocca. Non ero in grado di offrire spiegazioni, perché non ne avevo nemmeno per me stessa. Le prime volte tentavo di opporre ragionamenti alla sua violenza cieca e muta. Davo ancora per scontato che Luigi avesse un cervello razionale, e soprattutto che mi volesse bene.

Perciò non mi tiravo indietro quando si trattava di discutere, per esempio del fatto che avesse abbandonato la facoltà di agraria e ogni altro progetto di autonomia e si limitasse a lavorare col padre che gli dava mensilmente una specie di stipendio senza nessuna formalizzazione. Imparai alla svelta come questo fosse uno degli argomenti che lo faceva maggiormente imbestialire. Quando mi ruppe quattro denti e lo zigomo battendomi la testa sul piano di marmo del tavolo di cucina, mentre sua madre usciva frettolosamente dalla stanza mormorando “Gesummaria, quella non si sta mai zitta”, a scuola dissi che dovevo fare un intervento chirurgico per risolvere un problema ortodontico e rimasi assente per tre settimane.

Al rientro ignorai deliberatamente i colleghi, che oramai ad ogni certificato medico si scambiavano occhiate significative. Pensavo: Che ne sanno, loro? Luigi ha tanti difetti, ma mi ama. E’ un brutto periodo, è nervoso, è frustrato, si sente solo. In fondo è anche colpa mia, dovrei…potrei…. Entravo in classe, per qualche ora ritrovavo la parte migliore di me e mi sentivo viva. Così è passato il tempo. Molto lentamente. Ogni livido un paletto piantato in profondità, e il recinto è cresciuto senza che quasi me ne accorgessi, una palizzata compatta senza cancello e senza via d’uscita.

Allo specchio,vedevo un’estranea. Gli occhi spenti, gli angoli della bocca trascinati in basso e lì inchiodati, senza più memoria di un’altra possibilità. Cristiana mi ha telefonato la scorsa settimana dalla Finlandia per il mio compleanno. Non ci vedevamo da due anni. L’ultima volta era stato per la festa del 2 giugno, lei e suo marito avevano improvvisato una rimpatriata per visitare parenti e amici, e presentare a tutti un piccolo italo finlandese bello come il sole.

Aveva guardato la mia spalla slogata tenuta dal tutore. Aveva detto: “Parliamo, Elisa”. Io avevo ricacciato le parole nel luogo più buio di me stessa, e avevo risposto leggera: “Magari domani. Devo tornare a casa, Luigi ha un po’ di influenza e poi ho da correggere i compiti, tra una settimana ci sono gli scrutini”. Mentre me ne andavo, avevo il suo sguardo sulla schiena, pieno di rabbia e di incredulità. Il giorno dopo era ripartita per Helsinky, l’avevo salutata con un sms.
“Auguri. Come stai” mi ha chiesto.
“Bene, grazie”. C’è stata una lunga pausa.
“Tua madre mi ha detto che sei in malattia per un infortunio”.
“Sono caduta dalle scale” ho detto con voce naturale, e ho aggiunto una specie di risatina che voleva esprimere l’imbarazzo per la mia solita goffaggine.

In effetti mi ero fatta otto gradini a faccia in avanti, ma non ho specificato che i calci sferrati alla schiena erano stati determinanti a farmi perdere l’equilibrio e che insieme all’equilibrio avevo perso un bambino: avevo appena fatto il test di gravidanza e nel mostrarlo a Luigi, emozionata e tremante, avevo immaginato un abbraccio pieno di tenerezza, e finalmente una vita nuova, quella che avevo sognato e che mi ero vista strappare a unghiate dall’anima giorno per giorno. Aveva preso in mano il referto. L’aveva piegato con cura in due, poi ancora in due, poi ancora in due e in due, mentre lo guardavo senza capire e sentivo crescere la paura.

Nello sguardo che mi rivolse c’era la mia sentenza di condanna, e chiusi gli occhi in attesa del primo colpo. Quando mi vide in fondo alle scale con la faccia piena di sangue e le mani strette sul ventre si era precipitato accanto a me, mi aveva caricato in macchina e portato al Pronto Soccorso e intanto piangeva e ripeteva “Amore, perdonami, ho perso la testa, mi hai colto di sorpresa, abbi pazienza…Ti amo, ti amerò per sempre”. Sentivo la sua voce arrivare da un’altra dimensione, mentre mi torcevo per il dolore all’addome e vomitavo sui sedili posteriori.

Al Pronto Soccorso aveva ripetuto la dinamica dell’incidente, il capogiro, la caduta. Mi avevano rimandato a casa dopo il raschiamento raccomandando a mio marito di obbligarmi al più assoluto riposo. Facemmo il tragitto in silenzio. Quell’avverbio. La punta di un coltello mi avrebbe ferito in misura più lieve, un trapano non avrebbe potuto perforarmi il cervello in modo altrettanto sinistro e lacerante. Per sempre. Entrammo in casa in silenzio, salimmo le scale in silenzio. Mia suocera non mi rivolse parola per tre giorni.
Cristiana si è messa ad urlare nello smartphone.

Ha detto che sarebbe tornata per denunciarlo, che ero plagiata e che lei non gli avrebbe permesso di schiacciarmi, eccetera. L’ho ascoltata finché non ho sentito altro che il suo respiro affannoso. Mi sono accorta che avevo i brividi, tremavo. Ho chiuso gli occhi. Ho rivisto noi due sul ponte, mentre la notte faceva scintillare l’Arno di stelle, e l’acqua sembrava voler condurre i nostri sogni chissà quanto lontano, e la calda coperta del suo abbraccio si stringeva intorno alle mie spalle, e la vita stessa era un fiume di promesse. Soppesai con cura le variabili decisive della mia vita e i milioni di variabili alle quali non avevo lasciato spazio e possibilità.

Ho tirato un respiro profondo, ho riaperto gli occhi. “Sono caduta dalle scale”, ho ripetuto. E ho chiuso il telefono. Quando Luigi è tornato, mi ha trovato distesa a letto, con le imposte serrate. “Stai male? Che hai?” ha chiesto, mentre si svestiva degli abiti sudati e sporchi. Avevo la testa piena di nebbia, una nebbia spessa e umida che mi impastava anche la lingua oltre ai pensieri. “Ho la febbre” ho detto. “Dormo nella cameretta, ci manca solo che mi appiccichi l’influenza” e intanto si infilava nudo nella doccia. Non so, questione di un istante.

Quello che anni di percosse selvagge e brutali non erano riusciti a compiere, lo produsse quella frase insignificante, gettata nella più assoluta indifferenza. Fu se la nebbia fosse stata squarciata da una lama di coltello, da un acciaio affilato. Oppure, forse, semplicemente ero pronta. Ho girato la testa e l’ho guardato attraverso il vetro della cabina che si riempiva di vapore. Ho osservato il suo corpo appesantito, i peli che gli crescevano impietosamente sulla schiena e sugli avambracci, le cosce un po’ flaccide, i capelli intrisi d’acqua incollati alla nuca, il membro pendulo e le sue mani che lo insaponavano con profonda soddisfazione. Ho pensato: “Chi è?”.

E immediatamente, allineato e possente, un altro pensiero: “Che faccio in questa stanza con un estraneo?” Mi sono alzata. Dentro di me martellava l’urgenza di fare presto, avevo a disposizione i pochi minuti del risciacquo. Con gesti rapidissimi e precisi ho infilato una maglietta e un paio di pantaloncini, ho controllato di avere in borsa portafoglio e documenti e ne ho tolto le chiavi, che ho appoggiato bene in vista sul settimino. Ho sceso le scale zoppicando leggermente. Mia suocera mi ha gettato un’occhiata e ha continuato a pulire il coniglio per la cena. La Punto azzurra era parcheggiata accanto al gelso sul lato destro del cortile. Ho acceso il motore.

Dallo specchietto retrovisore l’ho intravisto alla finestra. Aveva l’accappatoio aperto, e un’espressione indecifrabile. Sono rabbrividita, nonostante i trenta gradi di una torrida estate. Ma nello specchietto dell’auto ho visto anche me. I miei occhi, io. Ho premuto l’acceleratore e sono uscita dal recinto. Per sempre.

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