Con il racconto "Di patria, d'amore, d'arte e d'altre cose" Elisabetta Tobaldo vince il Primo Posto della V edizione del Concorso Letterario Nazionale di Monselice
Racconto per un monologo teatrale
Sul ponte sventola bandiera bianca, su/ ponte sventola bandiera bianca…
La conoscete questa canzone, vero? Ma scommetto che pochi sanno che Franco Battiato ha ripreso questi versi da una vecchia poesia:
Il morbo infuria / il pan ti manca / sul ponte sventola / bandiera bianca!
Fermi! Non vale sbirciare sullo smartphone.
No, non è mia anche se un po t mi appartiene.
È di Arnaldo Fusinato, composta a Venezia il 19 agosto 1849, quando la gloriosa Repubblica di San Marco si arrese agli austriaci dopo un lungo assedio, stremata dalla fame e dal colera.
E Arnaldo… be’, era mio marito.
Io sono Erminia Fuà, sposata Questa è la mia storia, certo, ma anche un po’ la sua. Ed è un pezzo di storia dell’Italia che da “espressione geografica” divenne uno Stato unitario, guerra dopo guerra: il Risorgimento. Come? Lo ricordate poco? Avete studiato bene le guerre mondiali, la guerra fredda, perfino la guerra del Vietnam e il Risorgimento sulle mappe concettuali? Per arrivare in fretta al Novecento? Ah, la scuola di oggi! Proprio l’istituzione che io ho servito!
Seguitemi, dunque. Vi condurrò nell’atmosfera esaltante e idealista della più bella stagione della nostra storia.
Nel 1848, tredicenne, vivevo a Padova, allora nel Regno Lombardo-Veneto. Ero la primogenita di cinque figli. Mio padre Marco era un medico stimato; mia madre
Geltrude, spesso malata, una figura evanescente nelle nostre vite. La mia famiglia era ebrea, ma non di stretta osservanza. La sua vera fede era l’Italia indipendente e unita sotto la monarchia dei Savoia. Il comando veneto dell’esercito imperiale austriaco aveva sede nella Loggia Amulea, affacciata su Prato della Valle. Tuttavia, sprezzanti del pericolo, ricevevamo in casa intellettuali e artisti con i nostri stessi ideali.
Il 7 febbraio di quell’anno il maresciallo Konstantin d’Aspre, a capo della guarnigione, tentò di attraversare in carrozza il corteo funebre di uno studente universitario. Grande indignazione e, il giorno dopo, insurrezione. Così Padova fu tra le prime città con “il Quarantotto”. Poi Milano insorse con le Cinque Giornate. Venezia proclamò la Repubblica con Daniele Manin. Carlo Alberto di Savoia attraversò il Ticino e sfidò l’impero austriaco.
Io, ragazzina, poetavo. Scrivevo versi sui fiori e per l’Italia.
Mi aveva insegnato a leggere e a pensare lo zio Benedetto, ingegnere ferroviario, fratello di papà. Senza di lui, in quanto donna e impegnata nelle incombenze domestiche al posto della mamma, non avrei avuto un’istruzione, nonostante le idee aperte in famiglia e la ricca biblioteca in casa. Quelle con lo zio erano conversazioni, più che lezioni vere e proprie, e prendevano spesso spunto dalle nostre passeggiate in giardino. Leggevo con lui i poeti che infiammavano gli italiani: Giovanni Prati Aleardo Aleardi e Arnaldo Fusinato.
Una sera di primavera del 1852 arrivò da noi proprio Fusinato.
L’amico di un amico. Reduce dagli eroismi di Venezia assediata. Vedovo da alcuni mesi. Lui, che detestava diceva — le donne con velleità letterarie, restò ad ascoltare mentre recitavo i miei versi agli ospiti. Mi propose di aiutarmi a percorrere l’erta salita della maestria poetica. Lentamente, qualcosa nei suoi occhi cambiò. E anche nei miei.
Arnaldo aveva diciassette anni più di me ed era cattolico. Io, una ragazza poco più che adolescente ed ebrea.
Eppure, ci scegliemmo.
Ma non fu facile. Mio padre si oppose con tutte le sue forze: ero la sua bambina, la sua figlia amatissima. Ma io ero ostinata. Quando un’idea mi entrava in testa forse, dovrei dire: nel cuore — nulla poteva fermarmi.
Così, nel maggio del 1856, a ventun anni, mi trasferii a Venezia, da uno zio.
Mi convertii al cattolicesimo: non per rinnegare le mie radici, ma per amore. Le unioni civili non esistevano ancora.
Finalmente, il 6 agosto 1 856, ci sposammo.
Con il tempo, la mia famiglia comprese. Le ferite si rimarginarono, come spesso accade quando c’è il vero amore. Tornò la pace.
Arnaldo e io, però, decidemmo di vivere a Castelfranco Veneto, presso la contessa Teresa Coletti Colonna, madre della prima moglie di Arnaldo. Teresa mi accolse come una figlia e io colmai il vuoto lasciato da Anna Maria. Nella sua casa nacquero i nostri bambini: Gino, Guido e Teresita, così chiamata in onore della “nonna”.
Furono anni di attesa, di battaglie, di speranze. La Lombardia era stata liberata dopo l’armistizio di Villafranca del 1859. Nel marzo del 1861 fu proclamato il Regno d’Italia. E il Veneto? Quando ne avrebbe fatto parte?
Nel frattempo, cospiravamo. Assieme a Clemente, il fratello di Arnaldo. La nostra casa era il cuore dell’attività patriottica. Tra una serata di musica e una di poesia si copiava un proclama, si preparava una consegna clandestina, si tesseva la libertà. Io scrivevo appelli. Ne mandai uno come strenna natalizia alla principessa Maria Pia di Savoia. Eccone alcuni versi.
Ma il dì che i miei figli
fien tolti agli artigli
dell’Austro ladrone,
ben altra canzone
o figlia di Re,
t’aspetta da me.
Immagino la vostra impressione: altisonanti, retorici, patetici!
Ma sui contemporanei facevano presa, incitandoli alla lotta. L’Italia deve molto a noi poeti.
I giorni intensi e felici di Castelfranco dopo otto anni finirono.
Nel 1862 il vento si fece nuovamente aspro: Clemente fu arrestato a Venezia e condannato a sedici anni di carcere. La sentenza d’appello lo liberò, ma gli impose
Anche su Arnaldo si abbatté l’occhio sospettoso della polizia austriaca. Non ci fu scelta: alla fine di agosto del 1 864 partì per Firenze.
Io lo raggiunsi con i bambini a novembre.
La città si preparava a diventare capitale del Regno d’Italia. Era un fermento di menti, di progetti, di sogni tricolori.
Arnaldo, convinto da un amico, si mise in affari. Immobili, compravendite, calcoli. Lui! Poeta e patriota nel mondo arido della finanza. Previdi il disastro, Puntuale? come un temporale estivo, arrivò. Quando Firenze perse il titolo di capitale a favore di Roma, l’impresa di Arnaldo, con i nostri risparmi, si dissolse.
Intanto, dal 1866 il Veneto era italiano, Nel 1870 anche Roma fu liberata.
L’Italia era unita. O quasi: mancavano il Trentino e la Venezia Giulia. Al suo popolo chiedeva adattabilità, impegno e sacrifici. Anch’io volevo fare la mia parte, come da ragazza. Ma ero madre e moglie.
In quello stesso 1870 la fortuna prese il volto di Cesare Correnti, caro amico e ministro della Pubblica Istruzione. Fu lui a propormi per la nomina a ispettrice scolastica. Io! Poetessa nelle ore rubate alla cura dei figli e della casa, Accettai, con la mente fissa sull’obiettivo di risollevare l’economia familiare, ma il cuore stretto per la separazione dai bambini e da Arnaldo. Mi ritrovai a viaggiare per lavoro tra Napoli, Perugia e Roma. Dovevo osservare il funzionamento dei collegi maschili e femminili, fino ad allora gestiti perlopiù da ecclesiastici, e proporre miglioramenti per il passaggio sotto l’amministrazione statale.
Era l’occasione per promuovere idee nuove per le donne: il lavoro fuori casa e l’importanza dello studio. Perché, vedete, già allora si parlava molto di emancipazione femminile. Qualcuna, come Anna Maria Mozzoni, rivendicava perfino il diritto di voto. Ma io credevo che prima di tutto fosse necessario liberare le donne dal bisogno e dall’ignoranza. Vale anche oggi: come può una donna lasciare un marito violento, se non ha i mezzi per mantenersi? In gioco c’erano — e ci sono — autonomia, dignità, autostima. Il diritto di voto sarebbe arrivato, naturalmente, ineluttabilmente. Forse penserete che avrei potuto osare di più, dalla una posizione come la mia. Ma io sono sempre stata pragmatica: i sogni da coltivare devono essere realizzabili.
Fui apprezzata per come svolsi l’incarico di ispettrice, così me ne affidarono altri, sempre in ambito scolastico, fino al più prestigioso: direttrice di una scuola superiore femminile a Roma. Fu anche l’ultimo: la tubercolosi, che mi logorava in silenzio da tempo, ebbe la meglio. Mi spensi a quarantadue anni, il 30 settembre 1876.
Mi celebrarono con funerali grandiosi, con cortei solenni di autorità, maestre e allieve, con discorsi elogiativi, perfino con un enorme monumento al cimitero del Verano, a Roma. Un onore che, in vita, non avrei mai chiesto.
Poi il Fascismo mi ripescò come modello di sposa e madre qsemplare. Ma nemmeno così vorrei essere ricordata.
Vorrei esserlo perché sono riuscita a vivere a modo mio, in un tempo in cui le donne non potevano.
Ho sposato chi amavo.
Ho detto e scritto quello che pensavo.
Ho insegnato a tante giovani quanto valgano lo studio, l’autonomia, il lavoro.
Sono riuscita a conciliare la famiglia con il lavoro — la sfida più grande pefle donne del XXI secolo.
Ma, soprattutto, ho servito l’Italia, con una fede e una determinazione che molti uomini, allora come oggi, non hanno mai avuto.
Se ho un rammarico?
Uno solo: che ad Arnaldo, nei ricordi dei posteri, è andata meglio che a me.
Sul ponte sventola bandiera bianca, sul ponte sventola bandiera bianca.
FINE
Le motivazioni della Giuria
La Giuria assegna il primo premio della sezione narrativa al testo di Elisabetta Tobaldo, Di patria, d’amore, d’arte e d’altre cose, per aver interpretato la tematica delle pari opportunità con originalità comunicativa e notevole spessore tematico.
Il testo propone infatti nell’efficace stile drammaturgico di un monologo teatrale la biografia di Erminia Fuà Fusinato, la cui voce conduce l’agile narrazione, ricordando a un ipotetico pubblico di attuali studenti la propria identità di poetessa, moglie del più noto poeta patavino Arnaldo Fusinato.
Erminia narra di averne condiviso le giovanili passioni risorgimentali, animate dal comune amore per la poesia, testimoniata dalla ripetuta citazione dei famosi versi di Arnaldo: “Il morbo infuria/ il pan ci manca/ sul ponte sventola bandiera bianca”, e all’indomani dell’Unità d’Italia, di aver lavorato nelle istituzioni prima di tutto, per: “…la liberazione delle donne dal bisogno e dall’ignoranza”, contribuendo alla successiva conquista del loro diritto di voto.
La voce accattivante della poetessa, consapevole di essere stata pregiudizialmente dimenticata a vantaggio del più noto consorte, rivendica allora con il tono pacato e sereno la propria pubblica memoria di pioniera dell’emancipazione femminile.
A partire dal contesto storico e culturale patavino, fucina di talenti femminili come Erminia, il lettore è così condotto a considerare il contributo letterario e politico delle donne alla realizzazione della nazione.
