Terza Edizione del Concorso Letterario Nazionale di Monselice “Monselice per le Pari Opportunità – Davanti allo specchio: immagine di lei“
Il mercato del quartiere di Roma nord, ogni venerdì, si popola di uno stuolo eterogeneo di donne alla spasmodica ricerca dell’affare del millennio: magliette, abiti, costumi di pregio a pochi euro. La battaglia è fra casalinghe disperate, studentesse, signore bene dell’alta borghesia.
Io non faccio eccezione. Al cambio di stagione di un guardaroba minimale ho scoperto di avere bisogno di capi nuovi da indossare.
In una giornata primaverile in cui l’elevato tasso d’umidità ha reso l’aria insopportabile, il banco più gettonato è affollato, le continue grida del ragazzo che ne ordina il traffico tutto un programma. La sua simpatia innata attira le clienti più del miele le api.
Bruno, cicciottello, gli occhiali da vista di una montatura in acetato scuro su un viso paffuto, Marco ha battute e consigli per le sue donne. Non risparmia nessuna avventrice «Sore’, se provi questa» alla suora in tonaca interessata a una camicetta di cotone bianco mostra un top nero scollato e trasparente. Strappa una risata al gruppo e persino a me. In mano un paio magliette, la battuta mi colpisce «Sei tornata, more’, e senza l’amica tua stavorta, perché te sei innamorata de me». Mi strizza l’occhiolino e divento rossa, un peperoncino messicano «So’ fortunato, sei la ragazza più bella de Roma». Cerco di svicolare, acciuffo una terza t-shirt e mi avvicino per pagare «Trenta euro, vero?».
«Aspetta, ho un vestito per te» con una delicatezza inaspettata mi sposta verso il furgone. La portiera laterale, scorrevole, è già aperta. Dentro c’è uno specchio rettangolare a figura intera «Tieni, è della taglia tua, quarantadue, Segvi».
«Come sai il mio nome?».
«Sei la più bella passata di qua, il tuo nome è particolare. Turco», lo afferma, non lo domanda. Passa dal dialetto romanesco a un italiano perfetto.
«Mio papà è turco» mi porto dietro un pezzo di cultura e origini del Bosforo, un pizzico di Turchia nei tratti somatici.
Il vestito, nella custodia di plastica, è in pura seta, di un verde smeraldo acceso, le rifiniture di strass e micro perline candide a contrasto cucite a mano. Il prezzo reale del cartellino sconvolge, la firma è di uno stilista di grido «È capitato in uno stock, lo tenevo per una cliente speciale. Vedi come ci stai».
«Male, sto male con tutto» è così sinceramente cortese che mi sbottono «Soffro di dismorfofobia, chi ne è colpito si preoccupa eccessivamente per i difetti fisici, spesso immaginari».
«Ti vedi brutta. Allora ne soffro pure io, dalla nascita, e non scomparirà facilmente» ha centrato il bersaglio, l’autoironia aiuta a sciogliermi un po’.
«Grazie per l’offerta, non saprei quando indossarlo. Esco poco» a causa dell’insicurezza, stante i molti inviti, gli approcci col genere maschile si sono rivelati disastrosi.
Marco si tocca la mascella con le dita «Provalo, poi vediamo».
Insistente è insistente. Mi convince; sul furgone, lo sportello accostato per respirare nello spazio angusto, mi spoglio. L’immagine che mi rimanda lo specchio è ambigua. Il vestito è magnifico, un involucro elegante. Stona il suo contenuto. Io!
I miei difetti – la minuscola gobbetta sul naso e gli incisivi superiori tendenti all’interno – non rendono più naturale la mia bellezza, e non equilibrano la perfezione del mio volto. Brutta, sono brutta, a malapena passabile. Sudatissima, coi capelli lunghi appiccicati al collo e alla schiena, mi sento un mostro.
«Sei un incanto» all’apertura del portellone, Marco commenta. Poi si preoccupa «Sei pallida».
Vedo una miriade di puntini scuri davanti agli occhi aperti, le gambe cedono d’improvviso. Prima di toccare terra, due braccia mi sorreggono.
Marco mi stringe a sé, l’odore della sua pelle accaldata sfuma nel dopobarba del mattino «Tranquilla, non è niente, un calo di pressione».
Mi ritrovo appoggiata all’ombra, sui gradini del palazzo di fronte alla bancarella, vestita di seta verde e paillette, un fazzolettino di carta bagnato sulla fronte, le dita di Marco sul polso a controllare i battiti. Le clienti continuano nelle compere, appurato che sono viva e vegeta.
«Le pulsazioni si stanno normalizzando. Hai avuto una crisi vagale, nulla di grave».
«Studi medicina?».
«No, Legge, come te, lavoro alla bancarella per mantenermi agli studi. Ti ho visto in facoltà; tu non mi hai notato, però. Capirai, passo inosservato».
«Non si tratta del tuo aspetto, ma del mio. Tengo lo sguardo a terra, quando cammino nei corridoi o per le stradine dell’università. E poi tu non sei affatto brutto» lo dico di pancia, mi esce così, senza mezzi termini.
«Sei una pessima bugiarda. Che ti è successo?».
«Te l’ho detto, soffro di dismorfofobia. Il caldo e la mia immagine riflessa nello specchio mi hanno dato il colpo di grazia».
Marco è scettico «Si guarisce?».
«È un percorso di analisi lungo e complesso. Da anni vado in terapia da una psicologa».
«Non dev’essere tanto brava» con la massima del secolo si allontana «Aspetta, torno subito con la medicina per il tuo malessere».
Seggo più composta sui gradini, provando a non gualcire un vestito che non comprerò.
Marco ricompare con una bustina di carta e ne estrae un pacchetto di stagnola. Mi porge il panino al suo interno, farcito con una fetta di frittata «Resuscita i morti».
Un certo languorino e l’estremo garbo mi inducono ad accettare: a metà perché ho intuito che sia il suo pranzo «Dividiamo, non riuscirei a finirla» spezzo il pagina in due parti e assaporo al palato un panino dal gusto casalingo «Buonissimo». Mi sento già meglio, ho avuto una guarigione portentosa.
«Che hai deciso per il vestito?» fra un boccone e l’altro, chiede dell’abito.
«Mi sta di peste».
«Bubbonica, sì. Segvi, è fatto su misura per te. Posso regalartelo io?».
Già abbastanza in imbarazzo per essere svenuta fra le sue braccia, rinuncio al vestito «No. Se pensi di non poterlo rivendere perché l’ho rovinato, te lo pago. In regalo no» L’ho ucciso!
Mi fissa addolorato, la fronte spaziosa si è corrugata d’un tratto, di un dispiacere che non avrei voluto dargli. «Volevo che lo avessi tu, che lo indossassi pensando a me. Ma sono un illuso. Romantico, sempre un illuso resto. Che una come te potesse provare interesse per me, ecco, era quella la patologia di cui soffrivo fino a un minuto fa. Con tutto il rispetto per le patologie serie, non fraintendermi». Il cinismo che ha cambiato il suo volto in una maschera grottesca mi ferisce, è uno specchio riflesso di sofferenze.
Il proprietario della bancarella richiama l’attenzione di Marco che torna al suo ruolo di imbonitore.
Mi cambio dell’abito verde all’interno del furgone, e riesco coi miei vestiti, rendendo il tubino e le tre magliette da acquistare. Finalmente riesco a pagare. Marco mi dà il resto e la busta di plastica col mio bottino di guerra di una giornata dall’esito imprevisto.
Non mi rivolge parole né attenzioni. Credevo, scioccamente. Un’auto bianca, invece, mi aspetta «Segvi, non posso accompagnarti a casa ma sarei più sereno se tornassi in taxi». Mi spinge a sedere e colloca la busta al mio fianco.
«Dove abiti?».
Sciorino l’indirizzo all’autista, già saldato «Portala a destinazione e non fa’ scherzi sennò te vengo a cerca’, che ho segnato la targa der taxi» quasi lo minaccia, poi diventa nuovamente dolcissimo e sussurra, a voce bassa, in modo tale che possa sentirlo io e basta «Non ti ho chiesto il numero di telefono, non avrebbe avuto senso; però, se mi dai lo smartphone, ti registro il mio. Mandami un messaggio quando arrivi a casa, solo per farmi sapere che è tutto a posto». Gli porgo il cellulare, muta. Non riesco a spiccicare una sillaba, nemmeno quando mi accarezza lievemente la guancia, col dorso delle dita, dal finestrino abbassato, provocandomi un brivido pazzesco.
«Carino, il suo fidanzato! Non se ne trovano, oggi, di ragazzi così, signori’» ipotizzando che io e Marco formiamo una coppia, il tassista usa il termine carino. Marco è carino davvero e soffre di una malattia simile alla mia. E io lo comprendo più e meglio degli altri.
Il viaggio sul taxi è veloce, nel fresco dell’aria condizionata. A casa volo in camera mia senza rispondere alla questua di mia madre che vuole sapere com’è andata.
Poso la busta sulla scrivania, per recuperare il cellulare dalla tracolla e inviare il messaggio a Marco. Dalla busta, l’abito verde scivola sulla sedia! Deve averlo inserito Marco, assieme alle tre magliette. È un vestito incredibile.
Me lo appoggio addosso, tenendolo dalle spalline. Cammino piano piano lungo il corridoio fino al bagno, di fronte all’unico specchio dell’appartamento, osservando con attenzione l’immagine che il vetro argenteo mi rimanda. Oggi riesco a vedermi un pochino più graziosa del solito. Soltanto un pochino.
«Sei splendida» mamma non crede ai suoi occhi, ha paura a chiedere e soprassiede «Che preparo per pranzo?».
«Pane e frittata» rispondo di getto «mangiamo fra una mezz’ora, devo fare una telefonata» la avviso, certa che la telefonata più importante della mia vita durerà più di mezz’ora.